
La storia come cuore pulsante della fotografia: Michele Lapini ci svela i retroscena dei suoi scatti.
Michele Lapini, fotogiornalista freelance per vari giornali nazionali e internazionali racconta del suo impegno sociale e del significato della sua fotografia, di cosa significhino per lui i progetti nelle diverse parti del mondo e di cosa lo spinga a fare questo lavoro. Dopo un percorso di studi nell’ambito della cooperazione internazionale, prende in mano una macchina fotografica spinto dagli amici e da lì non se ne separa più. Decide così di iniziare a fotografare le cause che gli stanno maggiormente a cuore per generare consapevolezza su questioni sulle quali spesso tutti noi sorvoliamo.
Tu sei stato spesso definito come fotografo sociale. In una società in cui ha molto peso la parola, quale è per te il valore sociale di una fotografia?
La fotografia è uno strumento per informare ed aumentare la consapevolezza, ma non credo che la fotografia possa cambiare niente a questo mondo. Può fare capire perché il mondo debba essere cambiato, mostrando le storie un po’ invisibili che non sono raccontate come dovrebbero. La fotografia non è assolutamente obiettiva, mai. E’ sempre di parte, per come si mette il fotografo, cosa decide di fotografare, per come decide di fotografarlo.
La tua posizione è sempre molto vicina alla causa: ce n’è una che più di tutte ha impattato sulla tua persona?
Gli ambiti sociale, politico e ambientale, strettamente interconnessi, mi appassionano e mi sento spinto a documentarli.
La fotografia è uno strumento molto gerarchico, di potere per cui io faccio una foto e qualcuno la subisce. Ho uno strumento in mano e solo per questo fatto innesco un meccanismo di potere in cui bisogna poi essere molto bravi a far sì che questa gerarchia si annulli il più possibile.
Quindi usi la fotografia come espressione e motore di cambiamento. C’è stato un momento della tua vita in cui hai deciso questa cosa?
Non c’è stato un momento preciso, forse risale a ben prima che facessi fotografia. Vent’anni fa, quando a Luglio del 2001 c’è stato il G8 di Genova ho cominciato ad aprire gli occhi sul mondo e ad avere un po’ più di consapevolezza riguardo alla contro-informazione e all’attivismo. Mi son trovato un po’ davanti a questo scontro continuo tra una narrazione alta e le narrazioni che venivano dal basso, dalla società civile, dai collettivi. Insomma, un po’ tutto l’hummus che avevo intorno sia a Firenze che a Bologna mi ha portato a fare questo lavoro.
Parlando di Bologna, di recento ho visto la collaborazione dei manifesti per il 25 aprile in collaborazione con Cheap. Che rapporto hai con questa città?
Bologna è stata ed è la città in cui ho deciso un po’ di fermarmi, e dove ho deciso di studiare. Era un po’ quello che cercavo: una città non troppo grande, a misura d’uomo, che mi potesse anche offrire la possibilità di costruirmi una rete di relazioni, ma sentirmi anche parte di una comunità.
Volevo parlare di un progetto molto attuale che è Arcipelago-19. In questa situazione di chiusura, ha dato modo di avere una visione complessiva del Covid in Italia. Che emozioni hai provato fotografando questa situazione? Quale immagine ti è rimasta più impressa?
Innanzitutto la cosa positiva è stata la rete che si è creata ad Arcipelago, che è anche un po’ un obiettivo ambizioso che avevamo. E’ nato dalla necessità di fare un punto, sia per chi faceva fotografie che per chi le leggeva. Abbiamo creato un momento, un luogo purtroppo non fisico ma virtuale, dove fotografi e fotografe potessero far vedere i loro lavori, raccontando quello che stava succedendo fuori e dentro le case. Le città erano vuote, ma gli ospedali erano pieni. C’era questa contraddizione tra luoghi estremamente vuoti ed estremamente pieni.
E’ sempre difficile fare una selezione di un’immagine in un lavoro, però Il Teatro Comunale di Bologna è stato un po’ una cartina tornasole del settore della cultura, perché è stato fra i primi a chiudere e fra gli ultimi a riaprire.
Il progetto Antropocene invece parla di cambiamento climatico. Rispetto a questo argomento, che tipo di consapevolezza hai sviluppato durante lo svolgimento di questo progetto?
Questo tema è venuto un po’ da sé. Ad un certo punto ho messo un filo a un po’ di progetti che stavo portando avanti e mi sono reso conto che stavano parlando tutti della stessa cosa. Pian piano ho visto che stavo documentando le cause e gli effetti del cambiamento climatico in Italia, e li ho visti sempre più vicini: lo scioglimento dei ghiacciai delle Alpi è drammaticamente rapido e attuale. la tempesta vaia è un altro evento estremo ma è un altro campanello d’allarme che dovrebbe farci un po’ correre a prendere misure urgenti.
Per fortuna dal movimento Fridays for Future ad altri movimenti molto giovanili c’è una bella spinta, genuina e dal basso che spero riesca a metter un po’ di fretta alla politica.
In questa costellazione di progetti c’è secondo te un momento in cui c’è stato un cambiamento nel tuo modo di fare fotografia, in cui hai sentito che ci sia stata una svolta nel tuo approccio?
Sicuramente quando uno comincia a fotografare non più l’evento ma la storia c’è un cambio di passo nel lavoro. Al di là di fotografare un corteo o una manifestazione, si iniziano a raccontare le storie che stanno dietro. approfondire significa fare molta ricerca, studiare, confrontarsi, prendere i contatti. Credo che uno dei cambiamenti maggiori che possa avere un fotografo riguarda proprio il velo di profondità che si mette tra il fotografo e il soggetto.
E’ la storia che dà valore alla fotografia, quindi riuscire a inquadrare quello come soggetto principale e non tanto l’estetica della foto o la fotografia in sé. La storia è il cuore pulsante della fotografia.
Questo come si è tradotto nel tuo percorso? Da dove sei partito per arrivare a fare il fotogiornalista freelance?
Partire da rullino aiuta molto perché ti obbliga ad imparare a fotografare nel senso proprio tecnico. Ringrazio sempre i miei coinquilini di Firenze, che mi hanno messo il tarlo delle macchina a rullino.
Quello come base sicuramente tecnica. Poi ognuno secondo le proprie passioni. La fortuna, che a volte è anche un ostacolo, è quando il lavoro è anche passione. Dico che è un ostacolo perché a volte non sai mai dove finisce il tuo lavoro e dove inizia la tua vita. Però è una cosa molto positiva che si riesca a far diventare le proprie passioni e i propri interessa anche una forma di sostentamento. Poi quando una cosa viene abbastanza naturale uno non si fa neanche troppe domande.
E ad un fotografo emergente che consiglio daresti?
Di continuare a fare quello che vuole fare. Spesso ci insegnano che bisogna fare una cosa perché poi dopo c’è un ritorno. Secondo me il ritorno verrà se deve venire, ma se si ha una passione e la convinzione che quella sia la propria strada, bisogna continuare con tutta la tenacia del mondo.
C’è un reportage che reputi particolarmente significativo per te?
Il lavoro che stiamo portando avanti con Valerio Muscella sulle frontiere è un tentativo di raccontare questa realtà in maniera un po’ più profonda e più lenta. Riuscire a raccontare anche degli aspetti o delle storie altrimenti un po’ persi credo sia quello che piace fare a me. Non credo di restituire dignità né di cambiare le cose, però raccontare storie nella maniera più orizzontale possibile è quello che spero di fare.
Adesso siamo travolti dalla rincorsa alla notiziabilità, mentre io sono per il “parlarne meno però parlarne sempre”, quindi avere un approccio più lento al giornalismo. Noi stessi dobbiamo dare un po’ più di attenzione e respiro quando leggiamo le notizie, imparando a conoscere le realtà che fanno giornalismo lento, di inchiesta e di approfondimento e supportandole.