
La Terra ha la febbre: Elisa Palazzi ci insegna l’importanza di percepirsi parte di un ecosistema.
Elisa Palazzi, esperta in fisica per il clima, ci offre una panoramica della situazione ambientale in relazione ai cambiamenti climatici che stiamo affrontando. Dall’ osservatorio privilegiato dell’alta quota, dove le conseguenze climatiche sono particolarmente evidenti, ci spiega le cause, gli effetti e le direzioni future di questa situazione. Con profondo sguardo ottimista, ci ricorda di quanto siamo intrinsecamente connessi agli ecosistemi che ci circondano.
Quale è stato il suo percorso dal 2003, anno in cui ha conseguito la laurea, ad oggi? Perché appunto è arrivata a occuparsi del clima e soprattutto del clima montano?
E’ un percorso non previsto, come spesso accade a molti di noi. Laurea in fisica, fatta in realtà già dentro il Consiglio Nazionale delle Ricerche a Bologna, dove ho cominciato ad approcciarmi di più alla fisica dell’atmosfera. Poi ho continuato facendo anche un dottorato,modellistica fisica per la protezione dell’ambiente, che cercava di mettere insieme persone che venivano anche da diverse discipline. Ho imparato appunto che quando si studia un sistema complesso come l’atmosfera spesso è necessario avere strumenti diversi o complementari. Vincendo un concorso sono poi approdata a Torino, erano specializzati proprio nello studio degli ambienti di alta quota. In montagna è come se riuscissimo a vedere in anticipo cose che altrove succedono più lentamente. Quindi da un lato è un vantaggio, perché capisci meglio il clima, determinate cose, e quindi sono un osservatorio privilegiato. Uno studio che mi ha appassionata molto.
Cosa ci sta dicendo al momento sullo stato del nostro pianeta questo osservatorio privilegiato di alta quota? “Ha la febbre”, come scrive lei nel libro?
Sì, ha la febbre, sappiamo dai dati osservativi che la temperatura media su tutta la Terra è aumentata dal periodo pre-industriale ad oggi di un grado centigrado, che è molto, anche se la nostra percezione ci farebbe immaginare che si tratti di una cosa da poco. Le regioni di alta quota si sono scaldate di circa il doppio, per tutta una serie di meccanismi. Quindi sono un osservatorio privilegiato proprio per questo, perché stanno mostrando in maniera amplificata non solo l’aumento di temperatura, ma anche i suoi effetti. Si chiamano, questo tipo di regioni, hot spot climatici, quindi punti caldi. A seconda di come noi ci comporteremo, capiamo che la febbre del pianeta è alta, ed in montagna ancora di più.
Quali sono le cause primarie di questo cambiamento?
Si è visto che il clima cambia anche per conto suo, ed è sempre cambiato per cause naturali. Ma oggi si è sovrapposta un’altra causa forzante, che è la forzante antropica. Sono in particolare gli aumenti consistenti nelle concentrazioni dei gas a effetto serra, che derivano da alcune nostre attività: energia da combustibili fossili, cambiamenti nell’uso del suolo, pratiche di agricoltura e allevamenti industriali, deforestazione. E sono stati immessi in atmosfera ad un ritmo così rapido che i normali assorbitori che sono presenti nel nostro pianeta di questi gas, come lo foreste e gli oceani, non sono riusciti a rimuoverli di pari passo.
Spesso, si parla di paesi, dei grandi stati che cercano di accordarsi proprio sul ridurre le emissioni di CO2. Secondo lei, sono effettivamente dei target raggiungibili oppure sono destinati a rimanere delle utopie?
Mi costringo ad essere ostinatamente ottimista. Non sono dei target impossibili da raggiungere, però richiedono uno sforzo. Quindi diciamo che la strada che dobbiamo intraprendere è quella di comunque stare molto fissi negli obiettivi stringenti di riduzione perché prima si comincia meglio è e l’obiettivo è arrivare alla famosa neutralità carbonica nel 2050. Gli accordi di Parigi, nell’Articolo 2, ci dicono che sarebbe opportuno non superare i 2 gradi in più a fine secolo, facendo sforzi per arrivare ad un grado e mezzo. Sappiamo che non è sufficiente, però è necessario procedere a piccoli passi, per provare ad avere la sensazione che qualche cosa si faccia, e poi aumentare l’impegno di volta in volta.E’ necessario decarbonizzare la nostra società, far sì che la stragrande parte dell’energia non sia prodotta da fonti fossili, ma da fonti rinnovabili. Io mi sento di dire che sono obiettivi possibili. se sono presi seriamente da tutti quanti.
Dalla cronaca quotidiana sembrava che, con il lockdown, il nostro pianeta fosse tornato a respirare. Invece, parlando con lei, mi sembra di capire che non sia successo. Come mai?
Abbiamo mescolato cose diverse nell’informazione che si è data. E’ venuta meno una sorgente di inquinamento, e l’inquinamento si è abbassato. Però, per le emissioni dei gas climalteranti è un po’ diverso, non c’è questa risposta così immediata. La CO2 è tra i 30 e i 95 anni, il metano è quello che, tra i gas a vita media lunga, ha vita media più breve, 12 anni. E altri hanno addirittura una vita di 1000 anni o più. Quindi il lockdown ha un po’ rallentato la crescita, ma non ha certamente abbassato le concentrazioni.
Che cos’è l’acidificazione degli oceani e come effettivamente influisce negativamente sull’assorbimento di quelle sostanze inquinanti?
Dicevamo che gli oceani sono, insieme alle foreste, gli assorbitori di CO2. Quindi circa il 50% di quello che noi immettiamo viene assorbito da oceani e da foreste più o meno in egual misura. Questo ci fa anche capire che se gli oceani non avesse avuto questa capacità, come le foreste noi adesso avremmo un riscaldamento decisamente più amplificato rispetto a quello che sentiamo invece sulla pelle, quindi questo è un fatto positivo. L’altro lato della medaglia, però, è che man mano che la CO2 viene disciolta nelle acque oceaniche, ne aumenta l’acidità, cioè diminuisce il pH dell’oceano si vede che sta assolutamente diminuendo. La CO2 quando si scioglie in acqua forma un acido: l’acido carbonico, H2CO3, e questo acido carbonico rende la vita un po’ più difficile per tutta una serie di organismi che vivono nell’ecosistema marino, destabilizzandolo.
Non sappiamo e non pensiamo che anche la più piccola delle particelle sia in qualche modo influenzata da un nostro comportamento. Perché questa visione riduzionistica è sbagliata?
E’ antropocentrica. Nel senso che noi siamo abituati a pensarci come qualcosa di staccato dagli ecosistemi. Se invece pensassimo che siamo immersi negli ecosistemi, che tra l’altro traiamo senza forse rendercene conto davvero dagli ecosistemi un certo numero di servizi per noi essenziali. E non mi riferisco solo a cose pratiche, come dicevo prima l’acqua, la protezione, il cibo, le medicine. Sapete, la maggior parte delle sostanze con cui noi produciamo le medicine viene, per esempio, dalle foreste pluviali. Quindi, nel momento in cui disboschiamo o deforestiamo, ci creiamo un grosso problema, ma noi non ci pensiamo mai. La nostra salute equivale a quella dei nostri ecosistemi. C’è un concetto molto bello che si chiama “One health”, cioè una salute unica. Questo è il motivo per cui il problema del cambiamento climatico non è solo un problema ambientale.E’ un problema che riguarda tutto, tutta la vita.
Probabilmente più che un problema scientifico, che rimane, è un problema culturale. Rispetto alle fonti rinnovabili, a quali possiamo aggrapparci?
Solare, eolica, l’energia delle onde delle correnti marine. In Italia c’è un ente di ricerca, l’ENEA, che davvero forse è il primo al mondo nello studio e nella ricerca sull’energia che viene dal mare, dalle onde del mare, dalle correnti. Anche in Italia ci sono alcuni punti molto strategici e si è visto che potrebbe essere davvero tanta.
Non per essere sempre pessimista, però ci potrà essere in futuro una volontà soprattutto economica nella parte anche delle potenze oppure rimarremo comunque legati, in qualche modo, sempre al combustibile?
secondo me tra un po’ di tempo si. Anche perchè sono comunque fonti finite, quindi prima o poi dovremo fare la pace con l’idea che non potremo utilizzarle in eterno e la scienza ci dice che è la strada da intraprendere. Però la scienza non può prendere decisioni, perciò dipende un po’ dalla volontà di tutti quanti ed il rapporto tra nazioni è sempre molto difficile. Dalle prime COP si è fatto tanto, anche in ambito internazionale. Se pensiamo poi anche a quanto fermento c’è adesso a livello di coscienza, individuale e collettiva. I giovani, dai primi scioperi di Greta Thunberg, hanno costituito un movimento che dal basso ha risvegliato le coscienze di tutti.
Non ci saranno forse rivoluzioni industriali, ma rivoluzioni culturali. Parlando del ruolo dello scienziato: durante la pandemia questo ruolo è stato oggetto di discussione, spesso definito “da salotto”. Lei, da scienziata, cosa ne pensa?
Ci siano stati degli scostamenti rispetto a quello che è il normale modo di procedere della scienza, dove ci vogliono determinati tempi per arrivare a un certo risultato. Tutta quella discussione che di solito si fa a porte chiuse prima di mostrare alla società il risultato di un lavoro, è stato fatto davanti a tutti. E questo ha fatto vedere a tutti che la scienza è fatta di opinioni, contro-opinioni, di verifiche. Ma il messaggio importante che è emerso è che la scienza è complessa.